Luoghi d’Interesse
La pieve di san Floriano
La pieve di san Floriano, perla preziosa incastonata nella corona di monti che abbraccia la vallata di Illegio rifulge suggestiva sul crinale del monte Gjaideit. Un sentimento devozionale profondo ha da sempre inanellato in un indissolubile legame la comunità di Illegio con la meravigliosa costruzione plebanale intitolata a San Floriano di Lorch.
La storia di questa piccola chiesetta arroccata sul crinale del Gjaideit è fortemente intrecciata al tessuto delle tradizioni illegiane. L ‘affezione degli illegiani nei confronti della pieve di San Floriano è così marcata che, durante il terremoto del 1976, gli abitanti erano più dispiaciuti per i danni alla sua struttura che per il crollo delle case del paese. La venerazione nei confronti del Santo ha radici profonde e antiche e, mescolandosi alle tradizioni popolari, scandisce il calendario contadino del paese. La tradizione vuole ad esempio che il 4 maggio, nel giorno in cui si commemora San Floriano, si salga in processione alla Pieve eseguendo una complessa litania in latino.
Pur non essendo una delle più antiche della Carnia, la pieve in passato godeva di un sicuro prestigio, essa era infatti chiesa matrice di un piviere che si estendeva alla valle dell’Incaroio comprendendo le filiali di San Paolo d’Illegio, San Bartolomeo di Imponzo e San Vito di Paularo. La parte più antica della struttura risale al IX secolo, anche se è cosa certa che la zona fosse frequentata già dai secoli precedenti l’edificazione della muratura; d’altronde il guardo privilegiato della chiesa verso l’alta valle del But, canale d’accesso al Norico, ha fatto supporre che l’altura, e forse la pieve stessa, fosse utilizzata nell’epoca immediatamente successiva allo sgretolamento dell’impero romano come sede di vedetta per segnalare i pericoli e le incursioni provenienti dal passo di Monte Croce carnico, unica via d’accesso della valle ai territori transalpini.
La struttura della pieve di San Floriano ha beneficiato nel tempo di importanti rinnovamenti strutturali databili soprattutto intorno al XV secolo: l’aula viene ingrandita fino alle dimensioni attuali, si edifica l’abside contraffortata, si aggiungono la cripta, il portico voltato e l’ingresso settentrionale. Di poco successive le campagne di decorazione: all’interno dell’edificio si conserva un maestoso altare ligneo di Domenico da Tolmezzo (del 1479), l’altare in pietra dipinta del 1511 opera del maestro Carlo da Carona e nella cappella di San Vito un significativo ciclo di affreschi, databili al 1604, di Giulio Urbanis da San Daniele, allievo di Pomponio Amalteo. Il suggestivo cammino che si compie a piedi per raggiungere la pieve nella quiete boschiva di un sentiero di montagna ci trasforma in pellegrini e ci costringe a lasciare alle spalle il trambusto della città, disponendo l’animo a cogliere la suggestiva atmosfera di questo gioiello di arte e fede che da secoli veglia sulla pacifica valle con occhio benevolo.
San Floriano di Lorch.
Sebbene le circostanze del martirio di Floriano ci riportino ad un contesto culturale e geografico discretamente distante dall’ambiente friulano (teatro della scena è il Norico ripense) questo non ha impedito la trasmissione delle gesta del santo, favorita dalla coesione tra popoli di cultura cristiana.
Alto funzionario dell’apparato militare romano d’istanza nel Norico, il cristiano Floriano da valoroso soldato a servizio dell’impero si trasforma in vittima delle leggi persecutorie emanate da Roma. Nei primi mesi del 304, infatti, Diocleziano licenzia il quarto degli editti persecutori contro i cristiani. Rispetto alle precedenti ingiunzioni con quest’ultima viene fatto obbligo a tutti i cittadini romani senza distinzione di censo, professione ed appartenenza geografica di compiere i rituali sacrificali agli dei; il rifiuto sarebbe stato punito con l’esecuzione capitale.
In questo drammatico contesto si inquadra la vicenda di Floriano che, ricevuto notizia dell’arresto e della detenzione di quaranta cristiani nell’insediamento militare di Lauricum, oggi Lorch sobborgo della città di Enns, città dell’Austria superiore percorsa dall’omonimo fiume affluente del Danubio, sceglie di condividere il destino dei suoi correligionari venendo a sua volta arrestato dalle autorità.
Offrendosi spontaneamente ai carnefici Floriano contravviene alle indicazioni lasciate in tal senso da Cristo (E quando vi perseguiteranno in una città, fuggite in un’altra Mt. 10,23); tuttavia, considerato il contesto, la sua azione assume un significato che va oltre il sacrificio e diviene estrema manifestazione di fede.
I precedenti editti imperiali avevano progressivamente sanzionato le comunità cristiane requisendo beni materiali di proprietà della Chiesa, documenti e testi liturgici.Molti vescovi e prelati, per aver salva la vita e proteggere la comunità, avevano ottemperato alla richiesta consegnando, in latino traderut, quanto richiesto; per tale motivo su di loro gravava il marchio d’infamia di traditores.
Come narra la Passio Floriani processo e condanna avvengono per direttissima e non mancano le torture, prassi comune in questi casi. La pena, di fronte al rifiuto di sacrificare agli dei, è l’annegamento nelle acque del fiume Enns. Gli viene così legata una pietra al collo che ha la funzione non solo di assicurare la morte, ma anche di impedire il recupero del corpo, impedendo così il sorgere di qualsiasi culto o devozione sulle spoglie. Ma non andò così. Floriano comparve in sogno alla vedova Valeria che segretamente, ritrovato il corpo, lo seppellì nei pressi del luogo del martirio. Eventi straordinari si succedono nel luogo in cui riposa il corpo di Floriano, in particolare sorgenti miracolose compaiono per dissetare animali al traino di carretti, non a caso nell’iconografia viene rappresentato con accanto buoi e con in mano un secchio d’acqua. Quest’ultimo aspetto si declina nel senso più ampio, egli vista la forte affinità con l’acqua viene invocato a protezione degli incendi.
L’immagine del sacrificio di San Floriano e alcuni momenti salienti della sua passio, affrescati da Giulio Urbanis tra il 1580 e il 1585, sono ancora oggi visibili nell’omonima cappella della pieve illegiana.
“Ed ecco venuto il momento di spiegarci un po’meglio di quanto si sia fatto sinora l’arte e l’opera di questo caposcuola carnico. Doppiamente maestro della scultura e della pittura paesana, diffusore di italianità e di venezianità lungo i gelosi confini delle Alpi patrie; modesto ma schietto e volonteroso inizio d tutta la branca quattrocentesca e cinquecentesca dell’arte friulana che va da lui fino al Pordenone.”
(Fiocco)
L’Altare Ligneo di Domenico da Tolmezzo:
gioiello del Rinascimento Friulano
Intagliatore, scultore e pittore, Domenico Mioni si presenta come l’iniziatore di quella Scuola da Tolmezzo che riunisce sotto il suo nome un copioso gruppo di artisti friulani attivi nella seconda metà del Quattrocento accomunati da uno stile in cui dialogano reminiscenze tardogotiche tedesche e innovazioni rinascimentali. L’altar maggiore della Pieve di San Floriano di Illegio rappresenta una delle opere d’arte più prestigiose del maestro tolmezzino. Secondo i regesti parrocchiali conservati presso l’Archivio Arcivescovile di Udine l’altare commissionato da Giacomo di Francesco cameraro della Chiesa di San Floriano venne pagato 100 ducati e 100 libbre di formaggio. I documenti attestano anche come il lavoro fosse stato eseguito nel 1497 nella bottega di Domenico a Udine e solo negli anni successivi trasportato e collocato all’interno della Pieve. L’altare presenta il tradizionale impianto architettonico dei polittici gotico-fiammeggianti: strutturato su due piani completati dal coronamento a guglie è ritmicamente scandito da quattordici nicchie ove sono collocati altrettanti santi. La struttura delle nicchie, se nell’eleganza e nei raffinati motivi ornamentali riecheggia il mondo del tardo gotico veneziano dei Vivarini, sembra già affacciarsi alle novità rinascimentali: gli archetti a tutto sesto e la collocazione delle statue al loro interno sembra presagire una consapevolezza dello spazio ben lontana dall’astrazione geometrica medievale. Tuttavia l’isolamento e l’impassibilità dei volti dei santi così come della Madonna al centro, simbolo di una sacralità atemporale e assoluta, ancora legano l’opera alla cultura e alla tradizione tardogotica. L’altare, che nel 1956 ancora si presentava in ottimo stato conservando persino la doratura originale, risulta oggi mutilato: tra il 15 febbraio e il 15 marzo 1969, approfittando dell’isolatezza del luogo, ignoti malfattori trafugarono tutte le statue del polittico salvo quelle raffiguranti San Rocco e San Sebastiano.
Il Tôuf
L’acqua è elemento vitale per la campagna e per la comunità, è fonte primaria per l’economia ma anche materia viva per leggende e contas ed elemento portante nelle vicende umane della comunità.
Tra i numerosi rivoli e torrenti che bagnano la valle nodale per le sorti della comunità si è rivelato il rio Tôuf. Dove c’è acqua scorre la vita. Non a caso il placido ruscello che percorre l’abitato si sia configurato come perno sul quale trovò origine la porzione più antica dell’attuale agglomerato abitativo. Le placide acque del Tôuf, la cui natura sorgiva garantiva una portata, costituirono indubbiamente un incentivo per il radicamento di un centro abitato stabile. Studi e testimonianze archeologiche hanno attestato che la collocazione dell’attuale centro abitato risulta tardiva rispetto a primigenie tracce di insediamenti ricontarti in Àrve, Savàle, Cercenât e Ècjare, località a poco più di un kilometro a nord est dall’attuale disposizione del borgo. Il progressivo trasferimento dell’insediamento a valle rispetto alle suddette zone, appartate e protette dai fianchi delle alture, si può motivare nella necessità delle popolazioni di raggiungere le vie di comunicazione del tolmezzino così come di guadagnare terreno coltivabile in zone non minacciate dalle frane o dalle piene del Rio Frondizzon e Fontagnele.
Le peculiari caratteristiche idrogeologiche Tôuf diede avvio a numerose attività produttive lungo il corso d’acqua segnate dall’edificazione di diversi Mulini per la macina di granturco e cereali e una segheria. si installarono lungo il corso del torrente. Grazie a fondi europei, nel 200X, è stato possibile valorizzare il percorso detto “via del Mulini”che, risalendo il corso del rio dalle prime case di Illegio alla sorgende permette di riscoprire l’importante bagaglio di tradizioni alimentate dal ruscello fino a riscoprirne la fonte. Quest’ultima, ora circoscritta da una vasca – risalente agli anni ‘30 nel Novecento – che irreggimenta il bacino, permette di apprezzare il ribollio della purissima acqua che sgorga dal sottosuolo sgorga passando attraverso una crosta rocciosa che gli conferisce un’inedita qualità organolettiche.
Il Mulin dal Flec
Tra le più suggestive caratteristiche di Illegio si annoverano i suoi mulini, queste antiche strutture ancor oggi si visibili lungo il corso del rio Tòuf si fanno portavoce dell’intrinseca vocazione contadina che non ha del tutto abbandonato il borgo. Il placido rio, che sgorga da una sorgente situata nel nucleo antico del paese, ha favorito nel corso dei secoli il proliferare di attività, tra queste la macinazione dei cereali nell’economia locale e nell’alimentazione assumeva un ruolo cardine. Precoci si rivelano le prime attestazioni di mulini atti alla macinazione di cereali in Carnia. Se già nel XIII si contano le prime testimonianze, in epoca moderna e, in particolare dal XVIII, la conta delle macine subì un notevole aumento anche in relazione alla diffusione sul territorio della coltivazione del mais, la cui coltura ben presto diventerà predominante come già la sua presenza sulle tavole della popolazione friulana. Lo dimostra il dialetto: il termine blave, con cui oggi in friulano è detto il grano turco, in origine indicava le granaglie in generale; alla luce l’indiscussa affermazione di questo cereale la parola assunse la specifica identificazione di mais. A testimonianza del fervente attività agricola del paese, a Illegio, i registri catastali dell’amministrazione asburgica segnalano nel XIX secolo la presenza di sei mulini, una pista da orzo e una segheria.
Di queste strutture, oggigiorno solamente quattro permangono integre sono visibili lungo il corso del rio. Rimane attivo, tuttavia, solamente il Mulin dal Flec (anticamente Mulin dal Ros) dove Firmino Scarsini si occupa della macinazione del granoturco per il fabbisogno del paese. Questo edificio è l’unico dei mulini ad avere un piano sopraelevato, dove anticamente risiedeva il mugnaio. Accanto si scorgono i ruderi della “pista da orzo”: la forza idraulica azionata dalle pale del mulino in questo caso era impiegata per la decorticazione dell’orzo. A differenza delle macine tradizionali che polverizzavano i cereali, il meccanismo della pista da orzo era composto da un pestello la cui testa, azionata idraulicamente, non toccava mail il fondo del mortaio, non avveniva, dunque, nessuna macinazione ma bensì il rimestio meccanico determinava la pilatura del cereale. Oltre al Pestedor dal Ros, anche il Mulin dal Gjeneral, la cui struttura in pietra è ancora visibile lungo il corso del Tòuf a pochi metri dalla fonte, era adibita oltre che alla tradizionale macina per i cereali, alla pilatura; mentre il Mulin dal Mardar e il Mulin di Narduz – le altre due costruzioni tutt’oggi superstiti – erano riservate alla produzione di farina.
Gli Scavi Archeologici
Broili e Cjastelat Feleteit
I dintorni di Illegio si sono rivelati di grande interesse archeologico, le campagne di scavi archeologici svolte in quei luoghi hanno dato interessanti e fruttuosi esiti. La sorprendente caratteristica di queste scoperte è l’aver dato ineccepibile conferma archeologica delle tracce testimoniate dalle fonti, dalle memorie e dalle leggende popolari; l’indagine e lo scavo hanno attestato immancabilmente la veridicità delle antiche testimonianze. Le scoperte archeologiche hanno evidenziato come, fin dai tempi antichi, nel pianoro di Illegio fosse presente rinvenute nella zona riportando alla luce tracce di una intensa attività umana. La singolare geomorfologia del pianoro di Illegio, non distante dagli snodi di comunicazioni ma allo stesso tempo appartato e protetto dal monte Strabut, avevano favorito un precoce popolamento fra la Tarda Antichità e il Medioevo. Di notevole interesse si sono rivelate le ricerche compiute tra il 2004 e 2012 nella zona del Broili e Cjastelat Feleteit, ai margini occidentali del pianoro di Illegio, in corrispondenza dell’antico sentiero che connetteva l’abitato alla valle del But, nei tempi antichi unica via di comunicazione che congiungeva la conca illegiana al fondovalle dove correva la via Iulia Augusta, importante articolazione viaria che, attraverso il passo di Monte Croce Carnico, metteva in connessione con il Norico. Per quanto riguarda i rinvenimenti del Broili, la toponomastica offre un primo importante indizio: Broili, dal latino brolium, recinto, suggeriscono un’attiva traccia antropica confermata dalle memorie orali che indicavano nel sito antiche fortificazioni.
Le indagini archeologiche hanno portato alla luce i resti di murature appartenute a due edifici in uso tra il XI e l metà del XII secolo. La più antica di queste strutture fortificate è un edificio a pianta rettangolare (4,5×6/6,5 m), edificato in pietra, malta e intonaco, con pavimenti in battuto d’argilla cotta e soffitto con tracce di volta a botte. La seconda torre rinvenuta, di maggior solidità strutturale e di più ampie dimensioni (11×7 m con uno spazio interno di 45m₂), dichiara un intenso ma breve uso. Di particolare rilievo sono i reperti rinvenuti nel sito del Broili: oltre a vari frammenti di ceramica grezza, una pedina da gioco e frammenti di osso decorato. L’area Cjastelat Feleteit è stata oggetto di due campagne di scavo nel 2007 e nel 2008. L’inequivocabile toponomastica – l’area era anticamente definita coma Cjastelat -, gli interessanti indizi di resti murari testimoniati da don G.B Piemonte a fine Ottocento e il rinvenimento in occasione di attività agricole (fino agli anni primo dopoguerra) di reperti che affioravano dal suolo, lasciava supporre promettenti ritrovamenti. Gli scavi hanno evidenziato la presenza di diverse strutture murarie ed una torre quadrata e probabilmente distrutta da un vasto incendio nel XIV. La posizione arroccata, difficilmente raggiungibile dal fondovalle, rendeva il Feleteit un sito ideale per la difesa. Numerosi sono i reperti rinvenuti durante le indagini archeologiche: numerosi chiodi di varia foggia, una grossa chiave e i resti della serratura, e una punta di balestra del XIV secolo.
San Paolo Vecchia
Tra gli esiti più sorprendenti delle archeologiche promosse dal Comitato di San Floriano si conta la scoperta dei resti dell’antica chiesa paleocristiana dedicata a San Paolo situata mezzo chilometro a nord est dal centro dal nucleo centrale dell’abitato illegiano. Le fonti documentali suffragavano le innumerevoli tradizioni che riportavano in quel sito la presenza di un edificio di culto. Ancora vivissime le memorie degli anziani che ricordavano come, ai primi del novecento, resti di mura ancora affioravano dal manto erboso. Mentre le prassi liturgiche ancora oggi in uso fissavano in località San Pauli la partenza di rogazioni e ne facevano una tappa immancabile del corteo funebre dei morti del primo novembre. Con l’intento di dare concretezza alle numerose risultanze documentali e alle testimonianze, nel 2002 prende avvio un’articolata campagna archeologica volta ad indagare diversi siti della piana di Illegio, tra cui San Pauli. Gli scavi attuati in quella zona hanno condotto a esiti tra i più sorprendenti, portato alla luce i resti di un edificio di culto edificato nel 1476. La struttura era costituita da un’aula rettangolare (8.50 x 7.40 m) con annessa abside pentagonale al cui centro è stato rinvenuto il basamento per l’altare, esternamente l’ingresso era protetto da un porticato. Nel primo quarto del XVII secolo si aggiunse una sagrestia.
Tra gli aspetti più rilevanti nell’ambito dei rinvenimenti risalenti a questo livello cronologico si conta il ritrovamento, nel contesto dell’aula, di un pozzetto votivo contenente suppellettili e ceramiche policrome verosimilmente utilizzati per la messa di consacrazione e poi interrati a scopo beneaugurale e una piscina sacrarii, ovvero una piccola cisterna adibita allo scolo di olio e acqua benedetta. Nello spazio esterno antistante alla chiesa si sono individuate numerose sepolture che segnalano lo spiccata funzione funeraria liturgica dovuta alla progressiva dismissione della Pieve di San Floriano. Portata alla luce le vestigia tardo quattrocentesche, diversi riscontri lasciavano presagire la presenza, al di sotto della struttura tardo medioevale, di tracce di un edificio ancora più antico; un aspetto suggerito anche dalle fonti documentarie trecentesche.
Le ulteriori indagini hanno confermato tali teorie rinvenendo mura perimetrali di una costruzione di epoca tardoantica articolata in un’aula (9.10 x 4.20 m), divisa in due spazi quadrangolari da una partizione mediana, un’abside rettilinea e un porticato ligneo sorretto da pali. Nell’angolo su ovest della costruzione, rilevante è stato il rinvenimento di una vasca quadrangolare, interpretabile come fonte battesimale ad aspersione. Alcuni frammenti sottoposti alla datazione al carbonio quattordici hanno ricondotto ad una cronologia ascrivibile fra 337 e 441 d.C., con maggiore probabilità verso la fine del IV secolo, attestando la chiesa di San Paolo come la più antica pieve rurale dell’ambito friulano e uno dei primi casi riscontrabili nell’Italia settentrionale. Testimonianza della precocità dell’evangelizzazione rurale promossa dalla chiesa aquileiese, l’edificazione della chiesa di San Paolo pare connessa ad una precisa congiunzione storica: il Concilio di Aquileia tenutosi nel 381, voluto da Sant’Ambrogio per debellare l’eresia ariana, in seguito a tale evento diverse chiese nel nord Italia vennero dedicate ai santi Pietro e Paolo in segno di ortodossia.
Nonostante la chiesa venne dismessa nel 1732 a causa del cattivo stato conservazione edificio a causa di infiltrazioni e dissesti dovuti a ricorrenti movimenti franosi, la memoria e le tradizioni hanno conservato indenne il ricordo e l’attaccamento a San Pauli vecchia. Ancora oggi la prima domenica di agosto, giorno in cui secondo il calendario liturgico pre gregoriano (in uso prima dell’anno mille) si ricorda la dedicazione della basilica romana dei santi Pietro e Paolo in Vincoli (solo dal 1076 dedicata a san Petro), a Illegio si commemora la chiesa cittadina con una processione che conduce verso l’originario sito.
Pieve di San Floriano indagini archeologiche
Posta sul crinale del monte Gjaideit a 730 metri di altezza dominando con disinvoltura d’un guardo la conca di Illegio e dall’altro il versante della valle del But , spaziando al tagliamento al passo di monte Croce, la Pieve di San Floriano costituisce un aspetto nodale nelle tradizioni e nella cultura degli abitanti di Illegio. La campagna archeologica che ha coinvolto l’area della conca illegiana ha compreso il sito della pieve di San Floriano, l’indagine si proponeva di verificare l’esistenza di una cronologia anteriore alle prime testimonianze scritte datate all’inizio del XIII secolo. Si è potuto appurare che era precocemente antropizzata (già dal I secolo a.C.), una frequentazione dovuta con ogni probabilità ad attività silvo-pastorali. Le prime tracce concrete di un edificio cultuale individuate risalgono al IX-XI secolo, tuttavia, per la loro frammentarietà non consentono di ricostruire i caratteri architettonici della primigenia costruzione. Tali attestazioni costituiscono un documento di notevole interesse dal momento che, in tutto l’Alto Medioevo l’architettura era in buona parte lignea. In questi secoli l’area della pieve è soggetta ad un’intensa attività cimiteriale, come testimoniano le diverse sepolture rinvenute nella parte sud est dello scavo, tra queste le più arcaiche risalgono al VIII secolo.
Alla seconda metà del XIII secolo risale un rifacimento radicale dell’edificio che si articola in un’aula dalla forma quasi quadrata con una copertura voltata, si è supposto che l’attuale cappella di San Florido, orientata a nord-est, fosse all’epoca utilizzata a guisa di abside. A questo importante momento di rinnovamento si fa risalire anche la decorazione muraria interna, tutt’oggi sono visibili alcuni lacerti d’affresco in cui compaio le figure dei committenti, probabilmente i domini de Legio, promotori della campagna di rinnovamento della chiesa. In questi secoli la pieve è un punto di riferimento per il territorio circostante sia per la somministrazione dei sacramenti sia per le funzioni cimiteriali, una centralità che inizia a declinare a partire dallo scadere del XIII secolo: non si attesta più sepolture dopo la fine del XIII secolo. La perdita di questa funzione si associa all’acquisizione, all’inizio del XIV secolo, dei diritti di sepoltura delle chiese di San Paolo di Illegio e San Bartolomeo d’Imponzo.
La cessazione dell’attività funeraria conduce ad un ulteriore trasformazione della chiesa: alla fine del XV si attua un ampliamento della struttura verso sud che coinvolge l’area fino ad un secolo prima utilizzata come cimitero. Queste ultime modifiche consento il raggiungimento delle attuali dimensioni, viene inoltre edificato l’abside a contrafforti, la sottostante cripta e il portichetto voltato che sormonta il nuovo ingresso a nord-est tagliato nelle muratura medioevale. L’intervento quattrocentesco porta all’aggiornamento della decorazione murale con la conseguente rimozione del repertorio precedente. È stato possibile rinvenire molti frammenti della decorazione muraria antica poichè le macerie sono state impiegate come riempimento per portare a livello la pavimentazione dell’edificio.
San Vito
A circa 300 metri in linea d’aria dalla Pieve di San Floriano sorgono i resti della cappella di San Vito. Come riportano le fonti l’edificio, dalla planimetria rettangolare ad aula unica (25 m₂) orientata Est-Ovest, venne utilizzato fino ai primi decenni dell’800 e, in seguito al decreto di sospensione di ogni ufficio ingiunto nel 1849, dismesso a causa del progressivo stato di degrado. Al luogo la comunità riservava una particolare devozione, nella chiesetta si conservavano le reliquie di san Florido, prelevate da una delegazione di Illegio il 4 agosto del 1778 dalla catacomba di Santa Priscilla a Roma. Il cimelio venne in seguito trasferito nell’attigua San Floriano. Le attività di scavo attuate dal 2003 al 2005 avevano lo scopo di identificare la cronologia fondativa di San Vito poiché la memoria storica locale tramandava un’origine ancora più antica della vicina pieve. I rilievi hanno evidenziato l’origine alto medievale dell’edificio che, nella sua forma primigenia, era costruito in legno, come testimoniano le diverse buche da palo individuate nel terreno. Al centro dell’antica struttura è stata rinvenuta una sepoltura maschile di epoca carolingia, probabilmente un possidente un religioso. Poco tempo dopo l’edificio viene ricostruito in muratura di pietra e calce. Intorno alla seconda metà del XV si attesta la realizzazione di un nuovo livello pavimentale, il ritrovamento di alcuni reperti numismatici ha permesso di circostanziare la datazione. Modifiche successive porteranno all’asportazione dell’abside delineando uno spazio interno rettangolare dove, nella porzione orientale, due semipilastrini scandiscono l’accesso alla zona presbiteriale. Le ricerche condotte sull’edificio hanno spinto ad identificare la chiesa di San Vito come una chiesa privata o Eigenkirche, una tipologia diffusa in Svizzera, Alto Adige e Tirolo ma caso inedito in Carnia e Friuli.