Floriano
Ponte di arte e fede tra i popoli d’Europa.
30 aprile – 30 settembre 2004
Illegio, Casa delle Esposizioni

Albrecht Dührer, Albrecht Altdorfer, Michael Parth, Nicola Grassi e molte alte firme per cento opere d’arte tra tavole lignee dipinte, sculture lignee, tele, ori, codici, dall’VIII secolo al Novecento.

Mille e settecento anni fa, il martirio di Floriano di Lorch, primo cristiano che versa il sangue per la fede in terra d’Austria, governatore della provincia imperiale del Norico Ripense, poi venerato in tutta Europa, da Aquileia a Cracovia.

Un percorso che racconta l’unità dell’Europa e le sue radici culturali e  spirituali.

Una dimostrazione che tra i popoli dell’Europa dei Venticinque i confini, nella cultura e nella fede, sono già superati.

Una ricerca di quanto futuro c’è nel nostro passato.

Un segno che si è periferia solo dove si sceglie di esserlo.

 

Il vasetto di alabastro

Alessio Geretti

 

L’ARTE COME FORMA DI MARTIRIO

Di una notte in un villaggio sul limitare della città più santa e maledetta della terra voglio narrare. Alle porte di Sion, dove pare di sognare ai figli di Israele – perché la bellezza delle sue mura invade ogni anfratto dell’anima, come fossero del Paradiso -, rintanato nella dimora di Lazzaro, ancora incredulo d’esser vivo, stava il Signore. Spiata soltanto dalle stelle, una donna fendeva il buio con passo di presentimento. Ella aprì la porta sulla povera, clandestina mensa che si onorava di dare ancora rifugio al Figlio di Davide. Tutti tacevano. Tranne i segni e le materie: cominciò allora, infatti, il canto dell’alabastro che pare miele fatto cristallo, infranto d’improvviso  da mani che sembravano tenui, ma forti in verità, e le volute oleose del nardo purissimo che scende sul capo di Cristo come sulla barba di Aronne e sul ciglio delle sue vesti, e spandersi, subito, profumo rosso come un tramonto che sontuoso riempie il cielo e lo saluta non senza malinconia. Chi comprese quel linguaggio arcano? A molti dei presenti parvero frenesie senza motivo, senza misura, alcuni persino infastiditi per quello spreco di materie sottratte all’economia e alla presunta carità. Ma ragionavano così perché, privi di occhi per i poveri, erano talmente privi di occhi da vedere poveramente tutto. Cristo, invece, si espose al contatto di quei segni di donna e di passione divenuti canzone e lamento per il Figlio perduto, e gli sgorgò dall’orlo dell’anima la profezia che dichiarava indimenticabile ciò che quella creatura aveva fatto per lui.

Di quella notte, ancora oggi, si deve ragionare se dell’arte desideriamo comprendere il destino.

Come la donna della cena in Betania è ogni artista, per la Chiesa, capace di far sì che la materia nelle sue mani consegua la sua suprema aspirazione: quella d’essere dedicata. Perché ciò che non è dedicato, irreversibilmente dedicato, è morto, ché quando morrà sarà soltanto disvelato il suo interiore disfacimento.

Che tristezza, quando un’epoca intera si adagia sullo stordimento di considerare la materia, sempre, continuamente, come una realtà inerte, da usare, misurare, soppesare, calcolare, dividere: invece la materia ha, per così dire, un’anima ed un’aspirazione, è sempre più di quello che in essa si può numerare o comperare. Ma solo una certa sensibilità spirituale lo intuisce, lo rivendica anzi. E quando sostanze e forme divengono un segno di amore, una poesia, il luogo e il mezzo per dire verità che non hanno parole, allora eccole esprimere come in canto la vitalità, l’energia, la profezia che altrimenti, imprigionata sotto il velo delle prime apparenze, una mente trascurata e distratta ed un occhio superficiale non saprebbero discernere. Tutto, in realtà, è allusione e allegoria, se si ama. L’arte ha il compito di ricordarlo e il potere di farlo dimenticare. Perché il Creatore la pose come spada sguainata e fiammeggiante alle porte dell’Eden, dove trattiene e lascia, ad un tempo, intravedere  l’oltre. Gli uni la ammirano, di una stima che tuttavia si limita al consumo estetico ed ignora la commozione, l’ascesi e l’estasi. Gli altri la accostano con sguardo spirituale, perché vogliono entrare. Ma non si entra senza bruciatura, senza lasciarsi imprimere sul vivo l’ustione duratura del mondo invisibile, cui sempre opponiamo cuori refrattari. Temere l’ustione? Per preservare cosa, in fondo? Come se fosse davvero vedere tutta la bellezza l’accontentarsi dei riflessi delle fiamme, il descrivere cioè con precisissima acutezza un’opera d’arte e la sua storia e le sue parentele formali quasi fosse da vivisezionare. Si può, certo, rivolgere uno sguardo alieno ad ogni fede e spiritualità, tecnico e laico come un paesaggio lunare, ad una immagine uscita dalle mani di un artista. Ma allora se ne potrà vedere alcune bellezze, non tutta la bellezza.

In quella notte in una casa di poco cammino distante da Gerusalemme si elevava, invece, il canto delle materie, dell’alabastro, del puro nardo prezioso: è tutto un altro accostarsi, quello, a ciò che custodisce e comunica il senso della bellezza. È sapere che legni, pietre, colori, smalti, oro e tessere di mosaico, ogni materia ha una potenzialità, una sua esistenza, una sorta di personalità di cui è d’obbligo tener conto. Per l’uomo spirituale l’opera d’arte è un po’ una poetica della materia. Nella modernità, piuttosto, la creazione e la materia erano state sempre più considerate e rese una realtà morta, un oggetto da studiare e usare, res extensa, mentre lo sguardo della fede ci ricorda che il principio vitale intimo del creato, nascosto ed al tempo stesso rivelato, è il Verbo, il Lògos, per mezzo del quale e in vista del quale tutto è stato fatto, anche i pulviscoli perennemente ignorati. Perché in tutto ciò che esiste, come la fede ci rivela, sta scritto l’orientamento ultimo a diventare corpo – sì, la materia vuole diventare corpo, e l’arte grida questa verità -; tutto si muove verso l’uomo e in particolare verso il Vero Uomo, Gesù Cristo: e vorrebbe in fondo aderirGli, come il nardo genuino traboccato dal vasetto di alabastro sulla carne del Nazareno, perché il corpo è il portatore dello Spirito, è pervaso dall’amore di Dio e partecipa alla possibilità di essere assorbito dall’amore, che gli apre la prospettiva della risurrezione  e della vita eterna. Così accadde alla carne del Redentore risorto. Così accadde alle membra delicate di Sua Madre, assunta nella gloria dell’incorruttibilità. Dichiarazione divina definitiva che la materia è cara al cuore di Dio, e caro Gli è il desiderio di farla bellssima.

Si delinea, allora, una prima missione, una inderogabile testimonianza che l’arte deve rendere agli abitanti di questo mondo. Quando dalle sue figure s’avverte uscire come un privilegio, per quanto esse possano rivestire anche i panni del nostro vivere quotidiano, per quanto possano riprodurre oggetti o gesti in sé banali, allora l’arte scruta nell’interiorità delle cose per liberare il loro autentico significato, che trova corrispondenza nelle attese dell’anima umana. Quale suo compito supremo, l’arte libera il vero bello dai veli rudimentali della realtà e tutto trasfigura, mostra cioè che la scena di questo mondo è qualcosa di più della sua semplice determinazione empirica, è simbolo. Ed allora, quando dall’opera dell’artista la bellezza di Dio irradia forza spirituale attraverso forme potenti, ci raggiunge un presagio di splendore e un presentimento di salvezza, di riscatto, di quiete, sostenendoci nell’orgoglio del duro destino di essere uomini in un mondo fin troppo rabbuiato, talvolta immalinconiti dalle mortificazioni quotidianamente inflitte alla qualità spirituale della nostra vita. A questa qualità, all’irriducibile presenza dello spirituale in noi e in ciò che vediamo, rende testimonianza, martyrìa, l’arte. Come una visione straripante di luce si mostra allo sguardo del credente. Dinanzi ad essa si placa la passione ardente e l’incantesimo della vanità del mondo, essa stessa è un mondo altro che agisce dal suo piano in mezzo a noi. E quando giunge l’ora in cui la condizione interiore di chi contempla è pronta a cogliere la sostanza spirituale attraverso il velo dell’apparenza, cortina squarciata da cima a fondo, allora l’immagine compie la sua opera: la testimonianza intorno al mondo di Dio. Che poi non è un altro mondo, ma la percezione, l’intellezione di questo mondo come mondo di Dio. E ciò accade ogni volta che il sentimento acceso dalla visione di un’immagine d’arte trafigge l’acerba contraddizione di una quotidianità carica di avvilimenti e non senza ragione chiamata l’impero della banalità: no, ciò che esiste ha un senso, una dignità, una destinazione! Potremo confessare di non saperlo dire a parole, ma davanti all’arte non possiamo negare di ricevere la grazia di una tale percezione.

Certo, difficile ragionare di visione e comunicazione spirituale del mondo, della storia o dell’esistenza, senza ragionare di Cristo, che ha detto di sé: «chi vede me vede il Padre» (Gv 14,9). Unicamente nella fede riconosciamo non solo che Lui è il Verbo Incarnato, che ha rivelato tutta la pienezza della divinità proprio attraverso l’umanità che ha assunto, ma anche che tutto ciò che è veramente, profondamente umano è stato assunto da Cristo e riceve da Lui la più grande significatività possibile: la carne e lo sguardo umano, i gesti di amore e la creatività dell’anima, ogni espressione di interiore nobiltà e di pura bellezza sensibile – e dunque anche ogni arte – possono, per così dire, fare corpo con la presenza divina del Salvatore risorto e diventare la veste luminosa della sua Trasfigurazione.

Trasfigurazione, appunto. Non è grande l’arte che sa raffigurare le cose come tutti le vedono, ma quella che sa trasfigurare, che sa far sì che noi ce ne meravigliamo, come se non ce ne fossimo dapprima accorti, e ci rallegriamo riconoscendo le cose note e familiari in una condizione sorprendentemente nobile. Non la fascinosa lavorazione del legno, dei colori, delle stoffe, degli argenti o delle pietre è il suo vero discorso, ma il farsi testimonianza sul mondo di cui le immagini costituiscono il richiamo. Perciò, a ben vedere, l’immagine d’arte non è solamente un segno: essa lascia il segno. Possiede la qualità necessaria per essere all’altezza della sua capacità di comunicare simbolicamente un contenuto, con grazia e fascino. Così vuole lo Spirito di Dio, Spirito libero ma mai selvaggio ed arbitrario, anzi, capace di una finezza inenarrabile, di precisione e di eleganza. Conferisce ai gigli del campo un tocco di grazia che gareggia in incanto con la veste di Salomone. Non è uno Spirito contro la forma, contro l’opera ben fatta, contro la cura dello stile. Dovunque scenda, dona la signorilità che gli è propria.

L’opera d’arte, nel giudizio del pensiero teologico, è un confine tra mondi, spinge oltre i limiti dei colori, delle superifici, della materia, per rendere percepibile ai sensi, affrancati dall’ottundimento in cui sono fatalmente irretiti, lo spirituale di cui è portatrice. Si tratta di risvegliare i sensi a tutta la loro potenzialità: perché – sembrerà ardito rammentarlo, ma anche questa è teologia cattolica -, Dio si può sentire. Quando Gesù entrò a Gerusalemme, mentre la folla lo acclamava, ricordò ai farisei indignati: «Vi dico che, se questi taceranno, grideranno le pietre» (Lc 19,40). In ogni opera d’arte della terra si è materializzato l’eco di quel gridare, anche se agli autori può esserne sconosciuto il suono. Com’è urgente questo gridare, che risvegli dal sopore, dal sonno della ragione che genera mostri – non a caso, emblema dell’orrore inguardabile –, e già troppi, anzi, ne ha generati. Dilaga il più grande dei peccati, la dimenticanza. Perciò la bellezza dell’arte urge, oggi, quale rimedio per coloro che sono diventati opachi, insensibili, a volte tanto indaffarati, a volte poveramente sensuali, ma spesso incapaci di meraviglia, di provare i brividi davanti all’infinito, incapaci perfino di amare. Nel contesto di una generale crisi spirituale dell’Occidente, l’uomo, a causa della profanazione e della negazione delle forme, si sente a tratti così umiliato e coinvolto in questa profanazione, da essere afferrato ogni giorno dalla tentazione di disperare della dignità dell’esistenza e di liberarsi da un mondo che nega e distrugge. Non a caso, in questo complessivo contesto di crisi, abbiamo come la sensazione che il profilo, la qualità e anche l’eleganza delle forme cui la nostra civiltà dà vita sia modesta o almeno un po’ turbata rispetto a quella che la tradizione del passato ci riporta. Proviamo, talvolta, una certa nostalgia dell’umana capacità di rappresentarsi e di rappresentare. Il sintomo è chiaro: siamo in attesa di donne come quella di Betania, che ancora sappiano fendere il buio recando in mano opere come vasetti di alabastro profumato.

Eppure, nonostante ogni crisi, le culture di ogni tempo hanno dedicato grandi energie all’arte e all’arte sacra in particolare, creando edificazioni possenti o comunque esteticamente significative, tali da connotare sovente la fisionomia architettonica di una determinata civiltà. Dalle maestose cattedrali delle grandi città alle più minute cappelle votive sui sentieri di montagna, i luoghi dell’Assoluto hanno ridefinito la faccia della terra e hanno scritto nelle anime i connotati dell’identità di popoli interi. Nel costruire il proprio luogo, nel progettarne le forme e i mezzi, nell’avviare e compiere l’impresa architettonica, nell’arredare e poi dedicare a Dio l’opera, nel cominciare ad abitare l’edificio, continuando a frequentarlo e a celebrarvi la liturgia, una comunità pone in essere un imponente complesso di atti linguistici, con cui intende testimoniare in modo permanente l’evento dal quale la Chiesa è nata e così esprimere se stessa. Impossibile ignorare il senso di rispetto ed attenzione per ciò che altri uomini di altri tempi hanno fatto, nel centro delle loro città o sulla sommità di monti eletti, per trasmettere nei secoli ciò in cui credevano, il punto di riferimento della loro vita e il patrimonio immenso di fede su cui tentarono di edificare le loro esistenze. Non occorrono molte parole per cogliere ciò che quelle forme sanno ancora raccontare, ed in modo tanto convincente: le antiche figure possono provenire da tempi lontanissimi, ma ciò non autorizza a dirle passate, esse parlano un linguaggio che sta prima del linguaggio, il linguaggio dell’inespresso e dell’inesprimibile, che riesce a comunicare con efficacia intramontabile.

Custode di un modello di esperienza della verità che non è oggetto di indagine scientifica e che tuttavia è vera esperienza della verità, l’arte è, in definitiva, un insostituibile strumento di comprensione della realtà, e precisamente l’intuizione del suo versante “interiore”. Ma è una intuizione con leggi interne specifiche. Non si tratta di una conoscenza che seziona, è una accoglienza integrale. Spesso siamo troppo abituati ad ammirare specialisti e precise indagini analitiche per poter immediatamente comprendere che la vera grandezza dell’intelligenza umana comincia dopo l’analisi. Certamente non senza analisi, è vero: ma il vero genio è colui che sa analizzare il dettaglio e ripensarne il ruolo nell’insieme di tutto. Vedere tutta la ricchezza del dettaglio e poi i suoi nessi, le sue caratteristiche, nell’insieme. Conoscere il dettaglio come parte dell’organismo vivo. L’occhio che si ferma troppo presto e che non osa addentrarsi nei sentieri dello spirito dà il giudizio di Giuda: si poteva benissimo vendere quest’olio profumato per più di trecento denari e poi darli ai poveri. Egli, diviso in se stesso, non riesce a collegare tra loro il nardo, la donna, il momento e la sua unicità, il presente ed il futuro, il cuore della donna ed il Cristo che muore. Gesù, invece, in tutto questo, vede una cosa: il significato spirituale di quel gesto, che basta a dar ragione di ogni aspetto.

Ecco perché nella Chiesa si dovrebbe, in verità, parlare non tanto di arte sacra, quanto di arte santa. Perché il sacro è una categoria statica che significa separazione, divisione, velo del tempio e cortina di fumo. La santità, invece, è unificazione, superamento del continuo frammentarsi di tutto e di tutti, è lo splendore di una presenza, un irraggiamento che attrae l’uomo in quanto, misteriosamente, sussurra la possibilità del superamento dell’antagonismo tra ideale e reale, tra mondo pensato e mondo esistente, che nell’immagine d’arte paiono confluire. È un confluire accennato e promesso solamente, relativo, ma vero. La storia dell’arte è in fondo la storia del continuo tentativo di dare un’immagine a ciò che si percepisce come ideale, a ciò che è ancora nascosto, irraggiunto ed intravisto appena. È dopotutto il voler mostrare forme e volti come fossero già nella perfezione eterna. Anticipazione e invocazione di quella spiritualità del corpo dell’uomo e di quella corporeità dello Spirito di Dio che rappresentano il desiderio segreto dell’Altissimo. Persino l’antico inno allo Spirito Creatore dice: «accende lumen sensibus»: lo Spirito Santo viene ad accendere la luce dei sensi. Non una luce immateriale, ma una luce dei sensi e per i sensi. Ecco, in questo consiste l’estrema audacia della concezione cristiana dello Spirito Santo e della materia nella linea dell’Incarnazione: l’ultimo obiettivo dello Spirito di Dio è di accendere i sensi, è la creazione di un mondo nuovo anticipata dalla resurrezione del corpo di Gesù, dove la materia, definitivamente sottratta alla condizione mortificata di quaggiù, rifulge ormai di bellezza intramontabile. Il disegno della salvezza non è quello di fare diventare anime tutti gli esseri umani, ma quello di accendere una luce dei sensi che parevano irrimediabilmente spenti ed incapaci di vedere Dio. L’arte va in questa direzione: perciò è santa, per l’uomo spirituale, quale che sia il soggetto che rappresenta o la personale situazione di fede dell’artista stesso.

Ma allora l’arte è anche, in se stessa, drammatica. Giacché in essa si tende a raggiungere in una forma lo spirituale ineffabile. Ma ciò è impossibile in questo versante della realtà, nel tempo. Di qui il destino di ogni arte: dover rimanere nostalgia, e dunque, qualcosa di provvisorio. Quando Clodoveo, re dei Franchi, venne convertito da San Remigio, vescovo, giunse un giorno sulla porta del battistero di Reims: il re era affascinato dall’armonia dell’architettura, dal brillare dei mosaici alla luce dei ceri, dal profumo dell’incenso. E Clodoveo domandò:  «È questo il regno dei cieli di cui tu mi parlavi?» «No», rispose San Remigio, «è solo l’inizio del cammino che vi conduce». L’arte come invito e nostalgia, dunque, perché il Paradiso è nello stesso tempo vicino e perduto; ed è questa vicinanza perduta, questo nostro ostinato vivere sfiorando appena il Paradiso ad essere fonte di un sospiro inguaribile. L’esistenza intera, non solo l’arte, è nostalgia. Perché è bella e terribile la terra, anche se è solo una stazione di Via Crucis: ma non è che una promessa in attesa di compimento che non tradisce. A testimonianza insopprimibile di ciò si elevano le linee dell’architettura e si imprimono gli intagli e le dipinture di tavole ed icone. Credo che le opere d’arte di tutta la storia siano la siepe del giardino, appena declinato il giorno della sepoltura, la notte del sabato, da cui le donne di Gerusalemme osano scrutare la pietra bianca del Santo Sepolcro, illuminata dalla prima luna di primavera, in mezzo agli ulivi contorti. E attendono di vederla ribaltata.

LO SGUARDO RISANATO

Ma cosa accade nell’animo di chi contempla l’immagine? Perché è tanto cara questa esperienza della contemplazione artistica all’uomo e alla Chiesa cattolica, che custodì integra l’universale ampiezza di respiro propria del messaggio originale?

Racconta un mito antico che le Muse, divine ispiratrici delle arti, sull’Elicona avevano insegnato a Hermes come predire il futuro, osservando la disposizione dei sassolini che cadevano in un catino d’acqua e si adagiavano sul fondo del bacile. Le Muse, oltre alle arti ed alla scienza, insegnavano infatti ciò che è, ciò che sarà, ciò che è stato. È interessante questa curiosa attenzione dedicata alla disposizione dei sassolini in un catino d’acqua. Come a dire che, nell’apparente casualità degli eventi, il senso nascosto della realtà si dichiara, si fa linguaggio: basta saper leggere. E che altro è l’arte, se non un invito, una educazione alla lettura dietro le prime apparenze? Fosse soltanto la seducente ripetizione di quelle, quale tradimento si consumerebbe allora al suo cospetto ogni volta che è scrutata da un uomo capace di desiderare l’Assoluto!

La principale osservazione fin qui possibile è che l’arte non è fine a se stessa, quale che sia l’intenzione dell’artista da cui scaturì.  Introduce l’anima in un ordine spirituale più elevato, che esprime ed in un certo modo rivela. Al di là delle intenzioni dell’artista e della stessa committenza, imbattersi nella consegna di significati di un’opera d’arte è un evento formativo, indipendentemente dalla posizione che si prende dopo tale incontro. La percezione della bellezza artistica è un’attività spirituale che sviluppa e mette in moto nascoste capacità, o che perlomeno a quelle nascoste capacità fa appello, talvolta quasi disperatamente. Non per nulla riconobbe il mondo classico nello spettacolo – ciò che va guardato, letteralmente –  una funzione nobilitante e catartica, anche solo civilmente intesa.

Quando i simboli del senso, della verità e della bellezza agiscono in noi attraverso il nostro corpo, che viene sottratto alle sue funzioni banali del fare, produrre, organizzare, e finalmente il corpo si lascia, per così dire, incantare ed attraversare dalla forza della bellezza, allora la scena di questo mondo si dispiega non semplicemente come laboratorio da sfruttare, ma come ciò che può sprigionare un’energia capace di imprimere forza e profondità alla nostra anima, capace di comunicarle quella dilatazione interiore che è la magnanimità.

Allora, quando la grazia della bellezza ti raggiunge e ti risveglia, ogni cosa sembra un miracolo. È solamente in quell’attimo che si vede bene, che si vede tutto. Nell’istante della bellezza, il quotidiano si interrompe. Non sono più io a prendere: finalmente sono preso e trascinato – sì, con una certa violenza, direi -, in casa mia, nella casa interiore. Quello è l’ambiente naturale dell’uomo redento. Peccato, in tutti i sensi, che non lo si abiti se non di raro.

In fondo, l’arte è una versione della grande domanda che Dio pone alla sua fuggitiva creatura ed alla quale ella risponde sempre, denunciando fatalmente la propria posizione nella qualità spirituale con cui davanti all’arte si pone: «Adamo, dove sei?». Di fronte a tanti capolavori e alla loro epifania estetica accade una dilatazione dello sguardo alla quale siamo sempre un po’ impreparati. È giusto che sia così: va percepito, al primo impatto, tutto lo spaesamento dell’audace sorpresa dei segni. Poi, al secondo sguardo – se lo si concede: ecco il punto cruciale! – si viene affettuosamente rapiti: ogni più piccola presenza di materia e colore e forma riflette una Bellezza accumulata nei secoli, e il disegno dell’artista, nell’architettura o nella statua o nell’affresco, estrae cose vecchie e cose nuove dallo scrigno che custodisce e trasmette la Sapienza eterna, rivelata nel Vangelo. Allora, quando chi guarda è nella condizione spirituale giusta, lo spirituale nell’arte bacia lo spirituale nell’uomo e lo emoziona. Per cui, attraverso le forme che avvolgono i sensi incantati, la presenza del Mistero incide il segno del suo passaggio nell’anima. Oh, certo, basta un piccolo allentamento della giusta tensione del cuore, un attimo di torpore, ed eccoci nuovamente ridotti a prenderci cura con pedanteria dei nostri vezzi estetici. L’arte ridiventa maniera, persino raffinata, all’apparenza. Ma intanto il Mistero è passato. Lo Sposo è giunto nel cuore della notte, è entrato, si è seduto a mensa con le vergini sagge. Le altre rimangono fuori, escluse dall’intimità con la reale presenza del Vivente. Che spreco di bellezza, allora, la visita dell’arte…

No. Brama lo Spirito di Dio che in ogni cuore umano, davanti alle forme belle del mondo e dell’arte, si agiti la passione di quella donna che da dodici anni soffriva e si consumava per continue perdite di sangue, mai risanate dai medici di Israele. Ella pensò dentro di sé che si doveva avventare, segretamente e tenacemente, verso il lembo del mantello del Redentore, perché anche solo sfiorare il tessuto a contatto con la sorgente della vita immortale sarebbe stato causa di guarigione. Non perché il mantello fosse di stoffa arcana e potente, ma per il suo contatto con Colui che salva. Così, con il medesimo slancio che afferra e sospira, il credente sfiora con lo sguardo le immagini d’arte, sperandovi subito dietro la presenza di Dio. Se la Chiesa ha sottolineato la funzione dell’arte nella sua preghiera pubblica, lo ha fatto appunto perché sa che una formazione estetica vera e solida era necessaria per la completezza della vita e del culto cristiano. Liturgia, canto ed arte sacra tendono a formare ed a spiritualizzare la coscienza umana, dandole una maturità ed un ardimento senza di cui la preghiera normalmente non può essere molto profonda né può avere  vasti orizzonti. Perciò la Chiesa non ha mai considerato nemiche l’arte e la preghiera, e quando si è mostrata severa lo ha fatto soltanto perché voleva insistere sulla differenza essenziale tra arte e passatempo. Anzi, un credente che non ami l’arte, la poesia, la musica, la natura, è senz’altro pericoloso per il pensiero cattolico, perché la cecità e la sordità al bello non sono mai secondarie mancanze dell’anima, si riflettono necessariamente anche sulla qualità della vita di fede.

Alcuni, però, non capiscono. Pensano che concetti, principi e valori siano gli unici elementi costitutivi di ogni seria meditazione. È un grave errore. Questo significa dimenticare che l’uomo rischia l’idolatria non solamente quando prega, ma anche quando pensa: e l’idolatria del concetto è sempre in agguato. A tale agguato l’arte, nella liturgia e nella vita, è un rimedio che dispone ogni ricercatore del vero allo stupore ed al senso del limite delle sue stesse cogitazioni.

Resta – è pur vero – un sospetto, un timore.  La bellezza è il mistero in cui il diavolo lotta con Dio sul campo di battaglia del cuore dell’uomo. La bellezza è ambigua. Attrae e seduce, incoraggia e rapisce. Tutte le promesse di compimento portano il sigillo della sua forma, ma anche tutte le illusioni che perdono l’uomo approfittano della sua forza. Non ogni bellezza, quindi, si addice alla fede. San Tommaso osò interpretare la bellezza come «il tratto dell’essere che ha speciale somiglianza con ciò che è proprio del Figlio» (S. Th. I q. 39 a. 8c): e cosa gli è più proprio della Passione e del Sacrificio? La sola bellezza pura ed assoluta è dunque quella dell’amore crocifisso, charis incantevole, che sbaraglia l’eros distruttivo di Dioniso. È ciò che la parola biblica chiama gloria, l’irradiazione dell’intima sostanza della Trinità, che è intreccio eterno di Dedizione e Sacrificio e Consolazione. Questa bellezza, questa soltanto ha il potere di risanare la demoralizzazione del nostro tempo e di attirare i mortali tutti al Frutto dell’Albero della Vita. Questa è la bellezza che fa dell’arte quasi un sacramento, una sacra icona: non, solamente, una questione di stile.

Come dice la Parola di Dio, saremo giudicati sull’amore. Lo stesso vale anche per l’arte.

Il Figlio di Dio non si curò ossessivamente della propria forma divina e non si vergognò in alcun modo della nostra forma umana. Non era alla forma che teneva, dopotutto. Non aveva apparenza né bellezza per attirare i nostri sguardi (Is 53,2). Risplendeva, tuttavia, dell’unica bellezza che non sia effimera, ambigua, o passeggera: la bellezza che si identifica con l’amore. Per cui, se la passione per l’arte non si tramuta in un aiuto alla capacità di amore dell’uomo, essa resta sterile e maledetta. Sarebbe il diletto di quanti, come i soldati sotto la croce, laceravano la carne del Figlio dell’Uomo e cercavano – orribilmente futili, come sempre – di appropriarsi della sua veste intatta. Ma la dignità umana non è questione di apparenze.

Così, dunque, nella coscienza religiosa odierna è ben presente che la frequentazione dell’edificio sacro o dell’arte sacra non è un simbolo automatico della qualità della vita di fede. E tuttavia, proprio questa osservazione mette in luce perché contano l’edificio della chiesa in un paese e le opere d’arte in esso: lo spazio ecclesiastico dell’edificio-simbolo esige una qualità spirituale corrispondente, la qualità spirituale del modo in cui si è dentro e del modo in cui se ne esce trasformati. L’arte nella Chiesa non esiste per ricevere il culto, per essere oggetto di culto, in ragione dell’enfasi di una forma che metterebbe la bellezza dei nostri santuari in linea con la torre di Babele. Le nostre chiese sono state pensate, volute e rese belle per educare l’uomo alla bellezza dell’abitare con Dio in questa terra e in Paradiso, che è il senso ultimo di ogni abitare. Senza questa connotazione spirituale la consuetudine con l’edificio sacro degrada nella volgarità di sguardi banali perché senza profondità religiosa, quand’anche fossero quelli di occhi che hanno molto studiato. La presenza delle chiese e delle opere d’arte sacra in ogni borgo del mondo è dunque un richiamo serio, non un intrattenimento estetico, come ricordava la frase biblica vigorosamente drammatica delle consacrazioni degli spazi di culto, «terribilis est locus iste» (Gen 28,10-22).

Insieme, l’arte è preziosa ai credenti non solo per la sua natura di evento formativo, ma anche perché si addice all’annuncio evangelico. Il Dio vivente, mistero fattosi Volto perché i volti degli uomini non scompaiano per sempre ma possano un giorno brillare come il sole, forse può essere raccontato solo attraverso una certa bellezza. La bellezza dell’arte. La bellezza dei santi, che grondano una luce segreta, talvolta così evidente che il cuore, in loro presenza, si sente leggero e sussulta di gioia. La bellezza è uno dei pochi enigmi che oggi sembra ancora capace di svegliare gli uomini, di ferire l’anima e di farla vulnerabile al richiamo del Paradiso. La Chiesa vuole custodire nel suo tesoro l’annuncio mite e pacificante della verità eterna che è l’elaborazione artistica. Quando si sceglie per comunicare la via argomentativa, si arriva prima o poi al punto che o l’altro concorda oppure le strade si dividono, fino ad avere il sentimento dell’offesa e dell’umiliazione. L’annuncio della bellezza è invece un invito ad entrare, è illuminare il contenuto in maniera che questo si presenti con fascino ed eserciti un’attrazione gentile. Se uno si lascia liberamente attrarre e si incammina dietro a questo fascino, allora gli si rivelano d’improvviso innumerevoli misteri.

IL MARTIRIO COME FORMA DI ARTE

L’arte, ad ogni modo, non è che un riflesso, nobile e terso come oro e cristallo, ma pur sempre un riflesso. La vera rappresentazione del Mistero è la Passione di Gesù Cristo e la vera rappresentazione, éikon e memoriale della Passione, è il martirio dei credenti. Come per le norme austere ed antiche che vegliano sulla produzione delle icone in Oriente, perché siano fedeli al prototipo quanto più è possibile, così ritroviamo nella vicenda dei martiri, anche di Floriano, i tratti propri del Passio, attimo dopo attimo, talvolta parola dopo parola. Basta rileggere la narrazione del martirio di Floriano e vederne le immagini nel ciclo dipinto dall’Altdorfer per accorgersi che tutto è copia di Cristo. Suona male, certo, alle orecchie del nostro tempo questa apparentemente scontata fedeltà che ripete ed imita. Caratteristica dell’epoca contemporanea è il desiderio di essere unici, originali. Ma siccome non si è in stretto contatto con la sorgente della vita vera, ci si muove nell’ambito dell’espressione, della forma: così essere unici significa inventare continuamente nuove forme, diverse dagli altri, che hanno la forza di attrarre principalmente per la stravaganza della loro novità. Solo che ciò non salva dall’invecchiamento e dalla sterilità, anzi, dalla banalità dell’aver detto soltanto che cosa io sento: e perché, in fondo, dovrebbe essere interessante cosa io sento? Il vertice, in realtà, dell’elaborazione umana è la sintesi di ciò che è universalmente intelligibile con ciò che è sommamente personale, è il dare il mio volto personale alla bellezza che risplende dovunque e sempre immutabile. Così hanno fatto i martiri, prima ancora degli artisti. Perché l’ultima vetta della perfezione umana non è l’arte, è il martirio. Non per nulla l’arte di tutti i tempi ha soprattutto onorato i martiri, ha reso testimonianza alla loro testimonianza.

Ma il martirio è sconcertante. Paradossale rappresentarlo in forme belle, pur essendo sublime la sua nobiltà: come dimenticarne, infatti, l’orrore? È come frutto dolcissimo che pende da un albero infernale, tortuoso e soffocante di spire e di spine. Nei monumenti ai martiri, opere d’arte dipinte o scolpite, risuona sul fondo del canto di lode il greve latrato del Drago. Sulla sabbia del mare, discendenza innumerevole come le stelle del cielo promessa ad Abramo, con furore infernale e impazienza grande sta il Drago, il serpente antico, il Principe delle tenebre. Assedia la Donna vestita di sole, la Madre ed insieme la Chiesa. che, attraverso le convulsioni della storia, partorisce il mondo trasfigurato. E, sapendo che gli è rimasto poco tempo, vuole muovere guerra alla sua stirpe, divorarne per sempre ogni bellezza in cielo e in terra. Sempre, dal principio fino all’avvento delle nozze finali, il bene e il male si affrontano sulla scena incantevole e tremenda di questo mondo. Nelle sue latebre, nei suoi ricoveri, nelle sue trincee… Dall’inizio dei tempi è in atto uno scontro efferato tra le potenze tenebre e i figli della luce. Non vi è sosta. Mai. Per nessuno. E mille e mille forme manifestano il fragore recondito e altissimo di questo scontro frontale nella storia dell’umanità.

Intanto, il Volto Santo, quello impresso sul velo della Veronica, quello ricevuto dal re di Edessa, quello del sudario impressionato dal fuoco dello Spirito Santo, si moltiplica nei nostri martiri, appare nella polvere del mondo impastata dal loro sangue, quasi che tutta la terra diventi a poco a poco Veronica. E l’ira del drago, che è dannazione e odio, si avventa sul Redentore crocifisso, stringe nella morsa dell’inferno la sua discendenza che prende molti nomi, Stefano, Giacomo, Pietro, Floriano, Ermacora… Ma l’angelo dell’Abisso non ha potuto tenerlo prigioniero. La morte ha perduto il duro agone. Questo cantano gli artisti della Chiesa.

Ed insieme ricordano – impressionante constatarlo – che si assiste talvolta ad una misteriosa concentrazione in alcuni luoghi e tempi della grazia e delle tenebre. Il conflitto esplode perché è come se i due mondi si dessero appuntamento, nel salone di Aquilino, giudice di Floriano, come sul Litostroto di Pilato o nell’oscuro palazzo di Caifa. E tu sei lì. Collocato da mille posizioni assunte nel corso di una vita, senza nemmeno sapere dove ti avrebbero portato in fine, ma anche insediato laddove un disegno più grande di te ha disposto. Sei il campo di battaglia. Allora, tracciata dal sangue, si apre la via. Difficile tenersi in quel cammino. È da martiri. Che però non vuol dire “per pochi”. In mezzo alla battaglia, nel cuore della notte, non si può che essere martiri, se si vuole essere uomini. Se si vuole essere credenti. Perché la scelta della fede e la scelta della croce sono l’unico atto del credere in Gesù Cristo. E non poteva che essere così. La croce è il preciso attimo della salvezza: come si può essere di Cristo, se non appartenendogli in quel momento? Allo stesso modo, infatti, proprio quel momento è stato scelto da Cristo per appartenere a noi tutti.

È il martirio il momento dell’appartenenza. È l’attimo in cui s’infrange il vasetto di alabastro della tua esistenza, perché sia irreversibilmente versato il nardo – come è prezioso, se genuino – profumato e conservato perché entri nel sepolcro del Redentore. Una vita sprecata? Si poteva venderla per più di trecento denari, sostiene chi poi contrattò il prezzo di Dio per trenta soltanto. E chi mai si accorse, in quel luogo notturno e clandestino, del gesto folle e fanatico? I quaranta compagni martiri di Floriano, che di stenti e di torture morirono poco a poco in carcere, senza nemmeno sapere lo sguardo di quell’amico che per fedeltà anche a loro si consegnò al nemico ed alla morte?

E invece si compie la profezia del Figlio di Davide: dovunque arriverà il racconto di questa notte, sarà ricordato per sempre anche ciò che questa donna ha fatto per me. Il profumo del nardo che cola e passa riempie tutta la sala e la memoria. E l’arte, nata per celebrare conflitti mitologici ed eroi in battaglia, fasti imperiali e divinità sognate, si consacra per millenni ad elevare narrazione indimenticabile dei martiri cristiani. Si conti, se il giudizio sembra eccessivo, quante opere d’architettura, quante immagini scolpite o dipinte sono dedicate a quella moltitudine, che nessuno può numerare, di coloro che sono passati attraverso la grande tribolazione ad hanno lavato le vesti nel sangue dell’Agnello. Impressionante dismisura di creazioni d’arte, in onore dei martiri.

Ecco, l’arte è come Valeria, la donna che segretamente trovò il corpo del martire Floriano e lo raccolse per dargli sede degna, come seminando quel chicco di frumento caduto in terra morto, su cui sorgeranno grandezze che ancora oggi risplendono. Così da un martirio consumato in fretta, dopo una sepoltura ignorata da tutti, di immagine in immagine si spande il profumo del martirio e muove, persino dietro le quinte illusorie della cultura contemporanea, un pellegrinaggio ai luoghi santi; inavvertitamente, in silenzio, continua molte volte, da secoli, a levarsi la Regina di Saba con i suoi doni, per andare a vedere ciò che è bello e ciò che è vero. È così che i martiri, alla luce di ogni accurata indagine storica, si possono davvero annoverare tra i fondatori dell’autentica civiltà europea e tra i più stimolanti ispiratori della cultura in Europa in tutte le forme che ha saputo generare. Attraverso la narrazione dei testi e dell’arte, gli eventi della loro esistenza sono un segno perché lasciano il segno, il segno della grazia che sempre accompagna il travaglio dei popoli e genera un nuovo corso alla storia di dopo.

Noi, ammirati ed assorti scrutatori di tavole lignee dipinte e dorate, sappiamo che sulle braccia della Santa Croce, se ci avviciniamo abbastanza, si vede il sangue del Redentore miniare sul legno tutte le pitture di tutte le scene di martirio che artisti di ogni popolo hanno rappresentato nei tempi. Erano già tutte dipinte lì. Ora, al cospetto di opere che sono in fondo reliquie, cosa vedremo?

Noi vi vedremo i nostri morti. Anch’essi, come i santi delle ancone, sono passati per la grande tribolazione e sono stati saggiati come oro nel crogiolo, ma hanno vinto la grande battaglia e portano in fronte il segno dell’appartenenza a Dio. Ci sovviene di quando insegnavano ad accarezzare il pane e la terra, mai a stringere violenta, ed a scrutare la sera nel focolare di casa Dio che pareva nascondersi tra le rughe degli anziani e profumava di bambini in fasce. È loro la nostra fede e questo nostro essere ancora capaci di bellezza e di stupore. Per loro la nostra vetrinetta è divenuta l’altare domestico dove si mostrano le immagini di padri, madri, mariti, mogli, figli.

E già si sente gravido il grembo di una stirpe numerosa e splendida come la sabbia del mare e come le stelle del cielo. E mentre Abramo riposa in pace ed Eva rialza lo sguardo, perché si è compiuta la promessa udita dalle spine dell’Eden e dalle rovine di Gerusalemme, altre donne partoriranno e ameranno e cresceranno, vedranno partire, perderanno. Ciascuna consegnerà il vasetto di alabastro al frutto del suo grembo, insegnando a conservarlo per infrangerlo al tempo opportuno.

Del profumo di quel nardo genuino che è pura bellezza, custodito nel segreto in ogni anima umana, il cui soffio si spande nella vita e nella morte dei martiri, l’arte è la custode, orgogliosa di mostrare la commovente meraviglia dell’alabastro a frammenti, consegnato alle generazioni. E in quell’attimo, quando un frammento ci giunge fra le mani e davanti allo sguardo, sgorga nuova e limpida la nostra anima come una lacrima dagli occhi di Cristo in quella notte davanti a quella donna ed al suo gesto.

E il ricordo e la nostalgia si fa immagine e musica nei mantra del più lontano Oriente, nei melismi arditi elevati dai minareti, nei Salmi di Israele, nei Vespri cantati su libri consunti retti da mani consunte nelle chiese dei paesi di Carnia, come nei più grandiosi componimenti dei musicisti di tutti i tempi. Ecco cosa cantano i credenti di tutta la terra. Nella Compieta il loro canto sigilla il tramonto. Mentre il sole si abbassa sontuoso, sul mondo si intrecciano melodie antiche come il mondo. E la tristezza per la morte dei martiri si muti nella gioia per la loro gloria.

Archivio mostre > Floriano Ponte di arte e fede tra i popoli d’Europa